OLIO di OLIVA (Tagiasca)
Secondo alcuni storici, la coltivazione dell’ulivo in provincia di Imperia, risalirebbe al 1100, ad opera dei frati Benedettini. Le valli, che formano il territorio godono di un clima temperato a bassa escursione termica annuale. E’ qui che l’ulivo ha trovato l’ambiente giusto e il clima adatto. Il terreno fu sistemato a fasce (terrazze) e la cultivar Taggiasca, che prese il nome da Taggia, iniziò a produrre il migliore olio del mondo. L’olio prodotto con l’oliva taggiasca è stato valutato da molti esperti come il migliore del mondo. E’ prezioso come olio da taglio, dà il tocco finale a miscele di olii di provenienze diverse. I frutti della taggiasca forniscono rese abbastanza elevate con olio molto ricercato per le caratteristiche organolettiche, olio che possiamo considerare il migliore per la sua finezza, la leggerezza, il colore e per le perfette costanti fisico-chimiche possedute.
L’olivo fa una prima timida comparsa in Italia tremilacinquecento anni fa, e si diffonde ad opera dei mercanti fenici, cartaginesi e dei coloni greci soprattutto a partire dal VII secolo avanti Cristo.
Nelle città italiche della Magna Grecia l’olio d’oliva è necessario per l’alimentazione, la cosmesi, i riti, l’illuminazione e la salute del corpo.
Etruschi e Italici acquistando l’olio dai mercanti greci e fenici iniziano ad apprendere le tecniche di coltivazione dell’olivo e di estrazione olearia: in breve tempo le popolazioni di molte regioni italiane impiantano oliveti e producono olio d’oliva che dà origine ad un commercio interno sempre crescente.
Nell’antichità è più costoso trasportare un carico su carro per centocinquanta chilometri che farlo viaggiare per nave da un capo all’altro del Mediterraneo: per questo i commerci oleari si svolgono soprattutto via mare o lungo i fiumi navigabili, come viene ben documentato al «Museo Navale Romano» di Albenga.
Il commercio oleario è controllato dallo Stato, che interviene quando gli armatori non riescono a soddisfare le esigenze del mercato. L’Annona imperiale provvede direttamente ai rifornimenti per la popolazione di Roma e per le truppe acquartierate lungo i confini settentrionali dell’Impero; a questo scopo vengono ammassate notevoli quantità di generi alimentari e buona parte della produzione di olio d’oliva.
Ma nel V secolo l’olivo viene travolto dalla crisi politica, economica e militare dell’Impero Romano d’Occidente. Alberi di olivo sono coltivati solo attorno ai monasteri o ai centri urbani più importanti. Ma quando si parla di olivo l’immaginazione corre rapida alla terra per eccellenza di questa pianta, la Liguria: dalle Alpi liguri discendono le vallate che precipitano al mare – valli e dorsali scoscese, fatte di pietra ricoperta da un sottile strato di terra.
Per rendere le colline coltivabili è stato necessario un ciclopico lavoro di terrazzamento: costruire dei muri per contenere la poca terra e solo così renderla coltivabile. Sulla roccia si è creata la base del muro, eretto con la pietra ricavata sul posto e l’invaso riempito con la terra raccolta attorno. Così, dal basso in alto, fascia dopo fascia, è nata la Liguria: pietra su pietra, con le mani degli uomini, per secoli e secoli, dal mare fin su alla montagna.
Quando si impianta un oliveto, a protezione dello stesso viene innalzata un’edicola, che ospita un’immagine sacra o una statuetta di un Santo o della Madonna. L’olio prodotto in Liguria è trasportato via terra con otri caricati su muli che risalgono le valli alpine in lunghe carovane; tuttavia la maggior parte dell’olio lascia la costa ligure dentro barili di legno, fabbricati a migliaia appositamente per il commercio oleario. Dalla seconda metà dell’Ottocento l’olio della Riviera prende il mare diretto in Francia, Inghilterra e Germania; poi, al seguito degli Italiani all’estero, varca gli oceani e conquista i mercati del Nord e del Sud America, e dell’Australia.
Alla fine degli anni Venti del XX secolo dal porto di Oneglia e da Porto Maurizio, a bordo di navi a vela e a motore, partono duecentonovantaseimila quintali di olio di oliva confezionato in latte litografate, variopinte e spesso fantasiose nei marchi e nelle decorazioni.
PANSAROLE CON ZABAGLIONE
Il termine “pansarola” lascia perplessi quando lo si sente pronunciare al di fuori di quel piccolo territorio che viene definito “zona Intemelia”. Ma se si dice “pansarola” a Ventimiglia e dintorni, ecco che a tutti viene l’acquolina in bocca pensando a quel dolce prelibato che si prepara ad Apricale e che si gusta “affogato” nello zabaglione. William Scott, nel suo pregevole “The Riviera painted and described” pubblicato a Londra nel 1907 parlando di Apricale cita le “pansarole” e descrive come si preparano.. Ogni apricalese ha un suo segreto per preparare le “pansarole” migliori, ma a quanti vogliono cimentarsi nell’impresa è doveroso dare una ricetta antica consigliata da Delfina Rossi che vinse la “Pansarola d’oro” e che partecipò alle prime sagre.
Coniglio “brüscau”
Un modo insolito e caratteristico di preparare il coniglio è quello antico della Val Nervia e specialmente ad Apricale.
Mio nonno Bacì, detto “Giürumin” risiedeva ad Apricale ma, di fatto, viveva in “Foa”.
Classe 1887, reduce dalla Grande Guerra, negli ultimi suoi anni mia Mamma, mio fratello ed io andavamo, una volta la settimana, a portargli le provviste.
Dopo un’ora e mezza di mulattiera, passando in “Cunsigliöl, Cola, Bligagnöl e Albareü”, si arrivava in “Foa”.
Alla sera, prima che ritornassimo a casa, mio nonno andava “en te ü stagiu” (nella stalla), prendeva un coniglio, due “pate en sce öureglie” (due colpi secchi sulle orecchie), gli faceva “dare il sangue” ed accendeva un fuoco di “trunchi” (a fiamma viva), ci metteva u “trempè” (il treppiede) vi posava il coniglio e gli “bruscava” (bruciava) tutto il pelo.
Terminata l’operazione, lo lavava per bene nella vicina “riana” (ruscelletto) con sapone di Marsiglia, quello da bucato, e lo risciacquava ancor meglio nell’acqua corrente.
Lo svuotava delle interiora, lo risciacquava ancora ed il giorno dopo in tavola ci sarebbe stato “u cunigliu brüscau”.
Dopo averlo lasciato una notte “a serena” (sul davanzale al fresco) mio padre lo tagliava a pezzi con “u martarettu” (l’accetta). Mia mamma iniziava a farlo cuocere.
Nel tegame di coccio, a fuoco lento e con il coperchio, il coniglio “dava l’acqua”, che poi veniva eliminata. Aggiungeva olio d’oliva ed il coniglio rosolava per bene. Quindi due belle cipolle, una testa d’aglio, sale, mazzetto con timo, salvia, rosmarino, alloro e lasciava il tutto a rosolare.
Mezzo litro circa di Rossese, una manciata di olive salate e la cottura continuava. Quando era quasi cotto (45 min. / un’ora) aggiungeva un bel pomodoro a tocchetti ben maturo, privato dei semi e della buccia ed il fegato lasciato da parte. Intanto rosolava una padellata di patate ed una volta cotte le aggiungeva al coniglio.
Quindici minuti di riposo a fuoco spento, con il coperchio ed era festa. Se ne avanzava, il giorno dopo, riscaldato era ancora più buono.
Delio
I FICHI
I fichi! Pilastro nell’alimentazione contadina nei secoli scorsi. Coltura complementare con l’olivo in quanto espandeva le radici in profondità al contrario dell’olivo che le espande piuttosto in superficie. Riserva di zuccheri nella stagione invernale. Apricale con un territorio esteso ad un altitudine adatta alla coltivazione dell’olivo, anzi con un territorio quasi tutto vocato a questa coltivazione, è anche ricco di piante di fico. GIi statuti comunali del 1200 riportavano pene severe a chi tagliava un ramo di fico senza autorizzazione.
I fichi secchi
Si raccolgono i fichi (coli de dama, bel’omi) in piena maturazione, avendo l’accortezza di non danneggiare il picciolo. Si posano su graticci di canne in un luogo ventilato e ombroso e si lasciano seccare. Quando sono secchi, si raggruppano in cumuli di circa 10/12 e si avvolgono in foglie di pesco. Si legano con la rafia e si conservano in un luogo fresco e asciutto. Tradizionalmente si mangiavano a Natale.
Le CUBAITE
Dolce di origine araba, ma ormai entrato a fare parte della nostra cucina. E’ costituito da due “Negie” (ostie, cialde) sovrapposte nel cui interno è racchiuso un croccante di nocciole e miele.
Corroborante dolce di paziente ed elaborata preparazione, ma di lunga conservazione, veniva regalato in occasione del Natale e tra gli innamorati.
Acciughe salate
La settimana di S. Giovanni, alla fine di giugno è la più adatta per salare le acciughe. Sono belle grosse e l’estate in arrivo favorisce la maturazione nelle “Albanelle” (vasi di vetro). Il gusto forte dona ai cibi in cui viene incluso un invitante sapore marinaresco. Staccare la testa alle acciughe (freschissime) ed eliminare la sacca delle interiora. Avere l’accortezza che coda, corpo e spina rimangano intere. Se si ha la possibilità, sciacquarle in acqua di mare pulita per eliminare in questo modo ogni traccia di sangue, altrimenti asciugarle con un panno pulito per ottenere lo stesso risultato. Porle in “Albanelle” a strati, intervallati da sale marino grosso e pepe in grani. Terminare con uno strato di sale. Mettere in cima un peso, di solito una pietra di mare levigata della giusta misura. Controllare nei primi giorni che siano coperte di sale o della salamoia che si forma ed eventualmente aggiungere altro sale. Lasciare maturare per uno/ due mesi.
I Barbagiuai
Sono dei grossi ravioli con un ripieno fatto quasi interamente di zucca, e poi formaggio, tuorlo d’uovo e maggiorana. Per un gusto più deciso aggiungere al ripieno un cucchiaino di “Bruzzo”, ricotta di capra fermentata dal sapore particolare, forte e deciso (per chi non lo apprezza decisamente nauseante). Il nome barbagiuai deriva da “Barba di zio Giovanni”. Probabilmente deriva dal fatto che se si spezzano, formaggio e filamenti della zucca assomigliano alla barba di un antico zio Giuà.
La FIDELANZA
E’ l’antico modo di cucinare la pasta nei campi, per garantire un piatto caldo alle persone che aiutavano in “giornata”. Nelle campagne si accendeva solo un fuoco con dei “trunchi” (piccoli rami di olivo secchi) in mezzo a due “prè” (pietre) a ridosso di un “cantun in të una sprëscia” (un angolo vicino ad un muro), dove si faceva scaldare “a bagna” (il sugo) preparato la sera prima, si allungava con acqua (non troppa) e qui si cuoceva la pasta. Porro selvatico e qualche erba aromatica trovata nelle “fasce” arricchiva l’aroma ed il sapore del piatto e rappresentava una piacevole novità. La si può cospargere con Toma di Pecora Brigasca grattugiata.